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Cronaca

Foggia a un bivio, "la situazione è delicata e c'è sconforto". 26 anni dopo Marcone: "Verità arma in più per voltare pagina"

La battaglia della figlia Daniela, oggi vicepresidente di Libera: "Restano ‘pezzi di verità’ da difendere a tutti i costi. Ho sempre sentito che questa memoria deve appartenere a Foggia"

Ventisei anni fa, la mafia uccideva Francesco Marcone, direttore dell'ufficio del Registro di Foggia. Due colpi di pistola secchi, esplosi sotto casa. Una vera e propria esecuzione per mettere a tacere un uomo che, nell’esercizio del suo lavoro, aveva scoperto illeciti che era pronto a denunciare.

Erano le 19,15 del 31 marzo 1995. La pistola del killer era ancora fumante quando la figlia Daniela arrivò a casa e trovò il padre riverso sulle scale. Fu l’ultimo sguardo: in quel momento la vita di Francesco giunse al capolinea, quella di Daniela - oggi vicepresidente di Libera - deragliò su altri binari, acquisendo un senso diverso. “Dalla morte di mio padre è derivato il mio percorso di impegno sociale. Una scelta di vita, difficile e dolorosa”, spiega. Da quel giorno, infatti, Daniela si è sempre battuta per dare giustizia a suo padre (e a tutte le vittime innocenti di mafia), ma la vicenda giudiziaria che ne è scaturita si è troppe volte inceppata, ingarbugliata su cavilli tecnici e arenata dopo una serie di archiviazioni. Restano quindi solo ‘pezzi di verità’ da difendere a tutti i costi. Così come la corretta narrazione di quella morte, che non può scivolare via nel buco nero delle lacune giudiziarie: “Ho sempre sentito che questa memoria deve appartenere a Foggia".

Daniela, la tua battaglia sull’esercizio di memoria e di resistenza civile quest’anno coincide con una fase delicatissima per la città di Foggia, sotto la sente della commissione antimafia.

A Foggia sta accadendo quello che auspicavamo da anni. C’è sulla città una maggiore attenzione a livello nazionale, si sono susseguite tante operazioni importanti, molte delle quali stanno andando a processo mentre per altre stanno per arrivare le motivazioni delle sentenze. Tutto questo sta diventando il motore di una diversa percezione della comunità foggiana, sia in relazione alla presenza della criminalità organizzata a Foggia, che della percezione della comunità intesa come gruppo di persone che insieme può e deve dire ‘No’ alla mafia. Quello che sta accadendo oggi, con l’insediamento della commissione antimafia in Comune, è importante e grave per le implicazioni che avrà.

Nelle ultime relazioni della Dia al Parlamento si pone l’attenzione sulla cosiddetta ‘area grigia’ e sulla capacità della criminalità organizzata di permeare e controllare ambiti economici e pubblici. L’insediamento della commissione antimafia - che, nel bene o nel male, farà chiarezza - può segnare il momento di una possibile svolta?

Io credo che l’aver centrato i riflettori sulla città aprirà la nostra conoscenza ad una serie di verità. Certo non si istituisce un commissione di accesso se non ci sono elementi importanti di base. Personalmente attendo gli esiti della commissione per leggere al meglio quello che è accaduto in questi anni, durante i quali le notizie si sono rincorse in maniera frammentaria, e tanti di noi si sono chiesti cosa sarebbe accaduto di lì a breve.

L’arrivo dei commissari è stato accolto dal sindaco Landella come “Una bella notizia”. Per altri è stata una sciagura. Qual è stata la tua prima reazione?

Molto sofferta. Diciamocelo: non saliamo agli onori della cronaca per l’impegno che tanti di noi ci mettono. Ma lo facciamo per la nostra situazione e, in questo caso, per l’eventuale infiltrazione mafiosa all’interno del comune: la notizia è deflagrante. Poi è ovvio che la razionalità prende il sopravvento e mi sono detta che è importante attendere gli esiti prima di pronunciarmi. Certo, quello che leggo sui giornali, stralci della relazione su cui si basa tale decisione, è molto grave, e qualora fosse il fondamento di un eventuale scioglimento per mafia dobbiamo leggerlo per quello che è, con quel senso di attesa nei confronti di una istituzione a cui bisogna dare la possibilità di fare il proprio lavoro. Certamente, quello che sta succedendo - che è forte e potente -  ha dato un bello scossone ad un’altra fetta di recalcitranti e indecisi.

A prescindere da quelle che saranno le risultanze della commissione, tra tre o sei mesi la città si scoprirà più fragile e sfiduciata. Come si declina, in quest’ottica, la proposta di Libera per il territorio?

Ci stiamo ripromettendo di rientrare il più possibile sul territorio. Le nostre attività hanno subito un rallentamento a causa del Covid. Vogliamo tornare il prima possibile nelle scuole e nelle università, realizzare progetti con i giovani. E, soprattutto, continuare a lavorare sulla rete associativa. Riteniamo che il compito delle associazioni nella lotta alle mafie sia di grande importanza: significa darsi come obiettivo il cambiamento del livello culturale della città. Deve cambiare la percezione del ruolo del cittadino, ognuno può e deve fare la propria parte. Come? Scegliendo, al momento opportuno. A partire dalle urne fino ad arrivare alla denuncia di un illecito.

In questi anni siamo stati abituati a vederti sempre serena, calma e lucida. Come hai imparato a gestire la rabbia per quello che hai vissuto e per la mancanza di risposte giudiziarie?

Il dolore che mi porto dietro non svanirà mai, così come la sensazione, forte e desolante, che sulla vicenda di mio padre non sia stato fatto tutto quello che si poteva fare. Che chi poteva collaborare non lo ha fatto. Per me restano scritte nell’anima e nel cuore - e sono alla base del mio impegno - le parole della giudice Lucia Navazio, messe nero su bianco nell’ultima pagina dell’ordinanza che chiude l’ultima fase di indagine sul caso. Era il 2005, e lei scrive che desta sconcerto il fatto che “pezzi della parte sana della città, pur conoscendo la verità non hanno condiviso o contribuito”. E questa consapevolezza resterà dentro di me per sempre. Io e mio fratello ci siamo opposti ad ogni richiesta di archiviazione, richiedendo copia dell’intero fascicolo processuale, e leggendo le carte ci siamo resi conto che c’erano tante lacune. 

Cosa è cambiato dopo quella archiviazione?

Ho realizzato che se la città non fosse cambiata avrei continuato a sbattere contro un muro di gomma. A distanza di anni, quella rabbia mi fa tanto male. Cerco di trasformarla ogni giorno, grazie ad un lavoro continuo su me stessa; cerco di trasformarla in un orizzonte di comunicazione di speranza. Se avessi continuato a raccontare con rabbia la storia di mio padre (una persona che si è tanto impegnata e che alla fine è stata uccisa) e la mia (tanti dei miei sogni non li ho realizzati) avrei comunicato la storia di due persone sconfitte, ma non è così. Mio padre non è uno sconfitto, è sconfitto chi lo ha ucciso. E io, come figlia, porto con me la sua eredità e il peso della mia storia, che si è dipanata in autonomia in questa grande rete che è Libera, ma che parte da Foggia, con il ‘Comitato Marcone’. Erano gli anni del silenzio, un gruppo di insegnanti mi avvicinò per fare rete e non lasciarci soli. Foggia è anche questo, non dobbiamo dimenticarlo.

Manca la giustizia dei tribunali, ma c’è un obiettivo che ti sei prefissata per dare giustizia a tuo padre?

Io per 10 anni, dal 1995 al 2005 ho percorso una strada impervia continuando a chiedere che fossero riaperte le indagini ogni volta che se ne chiedeva l’archiviazione. E’ indubbio che se non avessi fatto tutto questo, tanti pezzi di verità sul lavoro di mio padre non li avremmo conosciuti. Non avremmo potuto comprendere il suo lavoro e cosa stava cercando di capire. Nel 2005 ero certa che avrei conosciuto una parte importante di verità, quella legata all’esecutore materiale, ma l’ultima archiviazione è giunta per decesso dell’indagato. Allora mi sono prefissa un impegno diverso, civile, sociale. Ho iniziato a leggere la storia di mio padre alla luce del contesto degli anni ’90, gli anni della mala (perché non si parlava ancora di mafia). Ogni volta che c’era una guerra tra le batterie mi chiedevo quale avesse ucciso mio padre. E’ stato il confronto con il male assoluto che mi ha fatto capire verso cosa indirizzare il mio impegno. Oggi penso che tante verità devono ancora emergere. E tra queste c’è sempre la possibilità che venga fuori la vicenda Marcone. Io ho trovato una ragione di vita in questo impegno che ha, in parte, ricucito lo strappo di quella morte. Ma il grosso può venire solo da una risposta di giustizia.

In questo percorso hai mai avuto paura o ti sei sentita in pericolo?

Non ho mai sottovalutato che vivo in una città pericolosa. Negli anni ho ricevuto lettere anonime, minacce più o meno velate di persone che mi consigliavano “datti pace", "pensa alla tua vita”. Ora il mio impegno avviene all’interno di una rete che mi protegge e non mi lascia mai sola. Ma sono consapevole che le cose che so, su quella morte, hanno messo in pericolo le verità delle persone fino ad un certo punto. Chi ha mantenuto i suoi segreti si è sentito minacciato da me fino ad un certo punto.

Di recente hai parlato di continui tentativi di sminuire o decontestualizzare l’accaduto.

Il passare del tempo cancella i contorni, l’essenzialità di quella storia. Ne toglie sostanza e dignità. E’ sbagliato dire che il movente dell’omicidio non si conosce. Il movente era nel lavoro di mio padre. Non sappiamo in particolare in quale delle pratiche sulle quali stava lavorando, ma  - a naso - ce ne sono almeno 5 o 6 possibili. Dire non si sa qual è il movente non è rispettoso, è un errore narrativo oltre che uno stereotipo per liquidare una storia senza verità.

Cosa ti  preoccupa maggiormente oggi, la malavita feroce e radicata o la 'zona grigia' e degli indifferenti?

Direi che se la battono. E sono entrambe due facce della stessa medaglia. Se la mafia ha prosperato è perché qualcuno o qualcosa ha consentito che mettesse radici, l’ha nutrita. Ha trovato strada e terreno fertile, da una parte grazie a indifferenti e conniventi (il silenzio è connivenza), dall’altra grazie alla cosiddetta ‘zona grigia’. Le mafie degli anni ‘80 e ‘90 che iniziavano a tenere sotto scacco la città erano più evidenti, ti accorgevi dei loro movimenti. Oggi è più difficile leggere le trame. E in città c’è tanto scoramento.

Questo anche dopo le grandi manifestazioni cittadine?

L’aver portato a Foggia la Giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia è stato un momento importante. Ma ogni anno sembra di dover ricominciare tutto da capo. Come se avessimo seminato, ma fino ad un certo punto. E questo mi fa capire il danno che è stato prodotto in questi anni nel tessuto sociale e culturale. Per questo qui bisogna rimboccarsi le maniche e lavorare il doppio. La verità su alcune vicende, anche  26 anni dopo, sarebbe un’arma enorme, di grande forza, che potrebbe spianare e illuminare il nostro cammino.

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