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Domenica, 28 Aprile 2024
Cronaca San Marco in Lamis

Caterino, la "bomba atomica" della strage del 9 agosto 2017 condannato all'ergastolo. "Se parlo...sai che combino?"

Il ruolo di Giovanni Caterino, 42enne di Manfredonia, il basista dell'agguato a Mario Luciano Romito durante il quale furono assassinati il cognato del boss Matteo De Palma e i fratelli agricoltori innocenti Luigi e Aurelio Luciani

Nei giorni precedenti alla strage del 9 agosto 2017 avvenuta nei pressi della stazione dismessa di San Marco in Lamis, in agro di Apricena, Giovanni Caterino, ritenuto il basista della mattanza, arrestato nell'ottobre 2018 e condannato all’ergastolo con isolamento diurno, aveva studiato le abitudini di Mario Luciano Romito, per poi pedinarlo nel giorno del quadruplice omicidio, quando oltre al boss e al cognato Matteo De Palma, furono assassinati i fratelli innocenti Luigi e Aurelio Luciani, testimoni oculari dell’omicidio secondo il Procuratore Generale.

Le indagini dopo il 9 agosto 2017

Le indagini, sviluppate a più livelli, furono affidate a un pool di magistrati della Dda di Bari, ai Carabinieri di Foggia e ai Ros, che raccolsero e confrontarono innumerevoli dati estrapolati da decine di telecamere disseminate lungo tutto il tragitto interessato dal passaggio di vittime e carnefici. Quindici risultarono utili ai fini di una ricostruzione più compiuta del percorso.

Il coinvolgimento diretto del 42enne, all'epoca dei fatti 38enne, emerse anche grazie alle intercettazioni. Così come il ruolo svolto da Luigi Palena, che avrebbe procurato due armi da fuoco, con relativo munizionamento, da utilizzare per l'omicidio, ad un altro esponente del contrapposto clan Romito. Altri, importantissimi elementi indiziari erano stati acquisiti, sin dall'inizio delle indagini, nell'ambito di una innovativa cooperazione internazionale che aveva coinvolto anche Eurojust.

Nelle cinquanta pagine dell’ordinanza firmata dal gip Marco Galesi - in cui erano contenute le risultanze investigative di un’indagine tecnica che aveva messo a sistema i dati di oltre 700 celle telefoniche, centinaia di utenze palmari e 2500 tracciati gps incrociati con i filmati degli oltre 50 ‘occhi elettronici’ utili - non era sfuggito il ruolo centrale di Giovanni Caterino nella pianificazione dell’esecuzione del boss.

Romito boss scomodo

Gli investigatori evidenziarono che l’agguato si inseriva nella storica faida che contrappone il clan Romito a quello dei Li Bergolis, “ordinato” da quest’ultimo gruppo criminale per “eliminare” il reggente avversario - Mario Luciano Romito (uscito pochi giorni prima dal carcere) - diventato una presenza scomoda, un ostacolo. Un delitto di matrice mafiosa per le “modalità plateali”, “volte a creare allarme sociale, attribuendo evidenza pubblica all’azione criminosa e rafforzando il messaggio omertoso a chi doveva intenderlo, con l’adozione di metodiche operative caratterizzate da inaudita quanto implacabile ferocia”. Come linguaggio di mafia impone, il gip aveva sottolineato l’avvenuta esplosione “di colpi devastanti al capo di Romito, volti a mostrare platealmente la ferocia e la forza del gruppo di fuoco, così da intimorire la popolazione del luogo”.

La Fiat Punto di Caterino

Punto di partenza, nelle indagini, fu la Fiat Grande Punto che il 9 agosto del 2017, seguiva l’auto del boss Romito. Il mezzo svolse un ruolo attivo nella partecipazione alla dinamica omicidiaria, con presumibili compiti di comunicazione o “staffetta” con gli altri soggetti coinvolti; mezzo che in quel periodo era riconducibile a Caterino.

Trovò conferma una conversazione captata, settimane dopo il fatto, all’interno di un’attività di autosoccorso: “Là stanno i problemi… quel figlio di puttana, hai visto che dà le macchine… l’ha data a Giovanni (Caterino, ndr)”. Poi continua: “Sta in mezzo… che ora ha fatto… hanno fatto una schifezza da una parte come se doveva… tirare…”. La conversazione procede: “Dopo che ha fatto… dopo che ha fatto tutta questa magagna, ha preso e si voleva sbarazzare della macchina… hai visto che l’ha venduta?”.

I killer, invece, seguivano la Grande Punto a bordo di una Ford C Max risultata rubata a Trani e data alle fiamme in località Mezzana delle Querce, in agro di Apricena. Qui, le telecamere presenti hanno immortalato tre persone - una più alta delle altre due - fuggire a piedi: si tratta dei sicari che, nella ricostruzione della strage, impugnavano rispettivamente un kalashnikov, un fucile calibro 12 e una pistola 9x21.

Il coinvolgimento di 'Faccia d'Angelo'

Infatti, nel corso di altre indagini condotte sempre della Dda di Bari ed affidate all'Arma di Barletta, era emersa, grazie alla brillante intuizione dei militari, la possibile implicazione nella strage di Saverio Tucci, anch'egli manfredoniano, soprannominato ‘Faccia d'Angelo’, in passato coinvolto nel processo alla mafia garganica denominato ‘Iscaro Saburo’, nel cui ambito veniva condannato per traffico di droga.

Le rivelazioni di Carlo Magno

Due mesi dopo la strage, il 10 ottobre, Tucci fu ucciso ad Amsterdamda Carlo Magno, un manfredoniano che da anni viveva facendo la spola tra la città olandese e Manfredonia. Lo stesso Magno, il 12 ottobre 2017, si era presentato alla polizia olandese con un avvocato per costituirsi, sostenendo di aver ammazzato Tucci, di cui aveva fatto immediatamente trovare il cadavere, occultato in una valigia all'interno di una autovettura che lui aveva in uso.

La sensazione che i rapporti tra Tucci (di cui già si ipotizzava un ruolo nel quadruplice omicidio) e Magno potessero condurre ad aprire un varco nelle indagini sulla strage di Apricena aveva indotto i magistrati della Dda, in primis lo stesso Procuratore Volpe - con l'eccezionale contributo di Eurojust - a intessere rapporti con le autorità olandesi, che aderendo alla richiesta di trasferimento in Italia del caso giudiziario (il cui processo pertanto si celebrerà in Italia), hanno consegnato Magno nelle mani della magistratura italiana, dinanzi alla quale ha poi cominciato un percorso di collaborazione.

Magno, nel corso di vari interrogatori, ha ripetutamente riferito agli inquirenti che Tucci gli aveva svelato di aver fatto parte del gruppo che aveva ucciso Mario Luciano Romito, confermando dunque l'ipotesi investigativa. Apparve chiaro il senso di alcune affermazioni fatte nel corso di intercettazioni proprio da Caterino, quando - dopo il quadruplice omicidio e dopo aver subito un tentato di agguato nel febbraio scorso – aveva incluso sé stesso e Tucci tra gli obiettivi prioritari del clan Romito.

Le ammissioni di Caterino

Sapeva bene, Caterino, di essere stato individuato nei pressi della scena del delitto, quel giorno. Lo ammette egli stesso, in una intercettazione ambientale effettuata a dicembre del 2017 a bordo di un’auto, mentre percorreva la Provinciale 28. Giunto in Località Villanova, in zona Rignano Garganico, impreca contro una telecamera di videosorveglianza: “…la bastarda… la vedi dove sta...”. e “L’arresto a me ci sta… se non è adesso… tra un anno… un anno e mezzo…”. Così si era espresso il 4 gennaio 2018, parlando con un soggetto che conosceva già il suo coinvolgimento nel fatto di sangue: “.. dobbiamo aspettare… prima calmare… vediamo prima cosa tengo, che qua qualcosa deve succedere”. Al suo interlocutore chiese: “… ma nessuno ti ha detto niente del fatto delle telecamere?”.

In una conversazione telefonica, qualche mese dopo l’agguato, l’uomo si era definito “una bomba atomica”, e immaginava il suo arresto: “… ormai sono diventato una bomba atomica… ma mò è stato il colpo, mò”. Faceva inoltre intendere che le motivazioni del suo arresto avrebbero indotto i presenti ad abbandonarlo come amico: “Può darsi che mi abbandonerai tu…”. Il suo ruolo-chiave emerse anche successivamente, quando Caterino confermò di aver rifiutato l’invito a collaborare con le forze di polizia in cambio di un programma di protezione, per sé e i suoi familiari: “Se mi metto a raccontare da dieci anni a tutt’oggi sai che combino?”.

L'agguato al 'basista' della strage

Caterino, il 18 febbraio 2018, a Manfredonia, era stato vittima di un tentato omicidio, ma era riuscito a scappare, mentre gli esecutori, almeno tre armati, si erano visti costretti a fermarsi perché la loro auto, una Alfa Romeo Giulietta, aveva riportato danni tali da dover rapinare il conducente di una Fiat Panda per allontanarsi dal luogo dell’agguato fallito.

Poco dopo il tentato omicidio, grazie alle attività tecniche espletate dalla polizia, l’esponente del clan Moretti-Pellegrino-Lanza, Massimo Perdonò, che verrà successivamente arrestato, aveva riferito ad un esponente di primo piano del gruppo Moretti, il particolare dell’auto da loro utilizzata, che a seguito di una collisione con quella del Caterino, aveva riportato gravi danni. E, quindi, della necessità di desistere dal proposito criminale e di rapinare un conducente della propria auto per poter far rientro presumibilmente a Foggia. L’agguato era stato inquadrato nell’ottica “di ristabilire un equilibrio di forza vendicando l’uccisione del sodale Mario Luciano Romito”. In precedenza l’uccisione di Romito era stata ricondotta “all’ennesima esigenza di ridefinire gli assetti di potere all’interno della criminalità mafiosa operante sull’area garganica”.

I mandanti del tentato omicidio

Nelle carte del blitz Omnia Nostra era emerso che i mandanti furono Matteo Lombardi e Pietro La Torre.

Uno degli elementi che ha portato gli inquirenti a ritenere Pietro La Torre coinvolto nel tentato omicidio di Giovanni Caterino, è la confidenza fatta dalla vittima a una persona, secondo la quale poco prima del tentato omicidio, aveva notato Pietro La Torre - la cui abitazione affacciava sul luogo del delitto vicino a quella che all’epoca era anche la residenza e dimora di Caterino, "fuori il balcone". “...prendo e mi sono fermato perché ho visto a Pierino sopra al balcone...mi ha visto e si è messo dinanzi alla porta". Caterino afferma anche che La Torre avrebbe pianificato l’agguato grazie alle informazioni sulle sue abitudini. ”...sul balcone che vede a me che tutte le domeniche mattina alle sette vado a giocare a pallone, tutte le domeniche mattina".

Nelle carte dell’inchiesta emerge il ruolo apicale rivestito nella vicenda da Matteo Lombardi, la cui parola è considerata “legge” per gli appartenenti al sodalizio che dirige; e la presenza di Pietro La Torre sul balcone della propria abitazione visto da Caterino sia la domenica del tentato omicidio che nei giorni precedenti, "messosi dunque verosimilmente a fare da vedetta sia per studiare le abitudini di Caterino, sia per dare avviso al commando appostato” scriveva il gip.

E ancora, il presunto ruolo di mandanti assunto da Matteo Lombardi e Pietro La Torre, si evincerebbe dalle loro stesse parole nel corso di una conversazione captata il 15 marzo 2018, quando, nel commentare l’accaduto, i due avrebbero affermato chiaramente di voler organizzare un nuovo attentato per raggiungere il fine delittuoso. La Torre esordisce sulla vicenda riferendo che Giovanni Caterino si è allontanato da Manfredonia e si è momentaneamente trasferito a Fiano Romano: “Da sabato è andato a Roma”. La Torre propone di inviare in esplorazione Massimo Perdonò: “Perché non mandiamo a Massimo?" Proposta che però Lombardi non avrebbe condiviso:: “...mo lascia perdere...”. La Torre: “Andiamo là...che fai? Una camminata”. Lombardi si preoccupa di come riuscire a trovarlo nella sua nuova dimora: “Come devo fare a trovarlo?”. Pietro La Torre: “Eh…”. Lombardi Matteo: “Sì, me l’ha detto...”. Secondo gli inquirenti si intuisce che i dialoganti abbiano già acquisito informazioni per individuarlo e sulle abitudini sulla nuova dimora.

Pietro La Torre ripete per due volte la targa dell’autovettura in uso a Giovanni Caterino, la stessa che conduceva durante l’agguato: “Sta sempre fermo là vicino, sulla strada per San Giovanni”. Il riferimento è ad una autorimessa luogo di abituale frequentazione di Caterino ed ultima residenza dello stesso dove è stato tratto in arresto il 16 ottobre dopo che aveva lasciato definitivamente Fiano Romano per tornare a Manfredonia verso la fine di settembre 2018. In un momento in cui non si sapeva ancora nulla del precedente tentato omicidio, sempre La Torre propone a Matteo Lombardi di servirsi ancora di Massimo Perdonò: “E perché non mandiamo a Massimo?”. Secondo il gip entrambi erano pienamente consapevoli del coinvolgimento di Massimo Perdonò nel primo agguato ai danni di Caterino e La Torre propone a Lombardi di servirsi dello stesso killer per completare il lavoro lasciato a metà, raggiungendo Caterino nel suo rifugio di Fiano Romano. Dopodiché - si legge nelle carte dell'inchiesta - a riprova delle loro intenzioni, parlano delle abitudini della vittima designata e ordiscono un piano per eliminarlo agevolmente: “Alle sei e mezza, esce alle sei, sei e mezza ha detto: non ha un orario preciso perché la mattina...non tiene orario, quando si va a ritirare sempre solo, pure dieci minuti, pure per dieci minuti deve restare solo è andata...Lo fai scendere con il pigiama, non dobbiamo portare niente, con la mazza, con la paparedd".

I due avrebbero così fornito la prova di essere i mandanti dell’agguato confermando di voler organizzare un nuovo agguato ai suoi danni e della possibilità di dare nuovamente l’incarico al medesimo killer che aveva agito per la prima volta, ossia Massimo Perdonò. La responsabilità di entrambi emerge anche dalle affermazioni di un altro soggetto nei dialoghi intercettati con Caterino, in cui gli rende noto che i mandanti sono La Torre e Lombardi. Inoltre, sulla base delle notizie assunte nel corso di un colloquio, Leonardo D’Ercole avrebbe confermato a Caterino l’inquadramento dell’agguato nell’ambito dello scontro armato tra i due gruppi rivali, evidenziando che, inizialmente, i loro avversari avevano deciso di coinvolgerlo.

Il collaboratore di giustizia

A riprova del quadro criminoso ci sono anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Danilo Pietro Della Malva: “Raduano mi disse che era stato lui con Michele Morelli e Massimo Perdonò. Morelli era alla guida, che lui era a fianco con il fucile e dietro Massimo Perdonò. Mi disse che andarono a sbattere contro l’auto di Caterino il quale si avvide di loro e scappò. Mi disse che dovevano ammazzarlo in risposta all’omicidio di Mario Luciano Romito”.

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