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Cronaca

Mamadou, dall'inferno del ghetto al riscatto con il teatro: "Racconto di me affinchè 'l'altro' faccia meno paura"

Il 38enne Diakitè ha cercato altrove una migliore opportunità di vita e oggi vive e lavora a Foggia. E' il protagonista dello spettacolo 'Racconto personale', prodotto dalla Bottega degli Apocrifi, in cui narra il suo viaggio dalla Costa d'Avorio all'Italia: "Attraverso la mia storia, parlo di tutto un popolo"

Sette mesi in viaggio tra il deserto e il mare, poi l’inferno nel Centro di accoglienza e l’incontro ‘salvifico’ con il teatro. La storia di Mamadou Diakitè, 38enne della Costa d’Avorio, trova un punto di svolta e di riscatto proprio sul palcoscenico, dove ha raccontato la sua storia in giro per l’Italia, con oltre 80 repliche. Il suo spettacolo ‘Racconto personale’, sarà nuovamente in scena, oggi e domani, al Teatro della Polvere di Foggia, prodotto dalla compagnia ‘Bottega degli Apocrifi’, di Manfredonia, che lo ha scoperto e, in un certo senso, ‘adottato’.

La sua è una storia di riscatto e di tenacia. Mamadou ha lasciato il suo paese non per necessità, né per sfuggire ad un conflitto. “Ma per aspirare ad una migliore opportunità di vita”, rivendica. Una chance che ancora oggi sta costruendo “con pazienza e tenacia”. Lui - che oggi parla correttamente italiano, francese, inglese e spagnolo - si è trovato in Italia per caso (“chi parte dalla Costa d’Avorio punta a raggiungere la Francia”, spiega), ma ha accettato la sfida di costruirsi un futuro a Foggia, dopo essere scampato agli “orrori” della permanenza obbligata in Libia e “all’inferno” del Cara di Borgo Mezzanone, ora smantellato.

Mamadou, come nasce lo spettacolo ‘Racconto personale’?

E’ nato per caso. L’idea è scattata, insieme a Stefania (Marrone, drammaturga Bottega degli Apocrifi, ndr) durante il periodo del Covid. Io avevo già iniziato a scrivere una sorta di diario sulla mia esperienza del viaggio, poi Stefania è riuscita a dare al racconto la giusta direzione e una vena ironica. Ne è nato quindi un racconto teatrale. Inizialmente ero titubante, pensavo: ‘A chi mai può interessare la mia storia?’. Invece, una volta andato in scena, ha funzionato. Abbiamo debuttato ad agosto 2021 e da allora abbiamo fatto oltre 80 repliche in tutt’Italia.

Insomma, contrariamente a quello che credevi, la tua storia ha suscitato interesse.

Sì, c’è tanta curiosità e tanta voglia di capire cosa c’è realmente dietro questi viaggi della speranza. Dopo lo spettacolo c’è sempre un momento di confronto/dibattito col pubblico. Ci sono sempre domande che non ti aspetti, alle quali non è sempre facile dare una risposta.

Quali sono quelle ricorrenti o che ti hanno messo maggiormente in difficoltà?

La domanda che viene fatta quasi sempre è se rifarei di nuovo tutto. E questo, nonostante nello spettacolo io racconti solo i primi tre giorni del viaggio. Ovvero la parte più semplice. La risposta è sì, lo rifarei nonostante oggi so quello che ho dovuto accettare e sopportare. Altre domande sono sulla parentesi in Libia, dove sono stato per quasi 6 mesi. Rispondere non è mai facile, ci vorrebbero giorni interi per rielaborare e spiegare quello che ho visto, quello che ho subito, che ho dovuto accettare e vivere sulla mia pelle.

Il viaggio lo hai affrontato da solo?

No, c’erano delle persone che conoscevo. Abbiamo iniziato il viaggio insieme, alcuni hanno mollato strada facendo, con altri si sono creati rapporti molto stretti, saldati dalle difficoltà e dalle situazioni estreme che si vivono in quelle circostanze.

Sei rimasto in contatto con loro?

Sì, assolutamente sì. E’ una amicizia vera, al di là del tempo e delle distanze.

Sette mesi per raggiungere l’Italia partendo Costa d’Avorio all’Italia. Qual è stato il momento più difficile? Hai mai pensato di mollare?

La parte che racconto nello spettacolo è la parte più facile: sai di avere un biglietto del pullman in tasca e che ti porterà fino ad un certo punto. Ma le difficoltà non mancano: da una parte le richieste pressanti di denaro da parte di gente senza scrupoli, dall’altra i controlli serrati della polizia. Però sai che se hai i soldi, in un modo o nell’altro vai avanti. Il resto è stato un crescendo di difficoltà e orrori: la traversata del deserto dal Niger è stata difficile, abbiamo rischiato davvero. Siamo stati 15 giorni nel deserto, spesso senza cibo e acqua. Poi siamo arrivati in Libia e lì abbiamo dimenticato il deserto, perché siamo piombati all’inferno. La traversata in mare, poi, è stata ancora peggio.

Perché?

Perché lì vedi faccia a faccia la morte. Ti mettono in acqua di notte, quando è tutto buio hai solo il mare grosso attorno. E sul barcone c’è un silenzio irreale, si sentono solo preghiere. Così fino a quando la nave ong Sos Mediterranee ci ha salvato.

Quanto è stata importante la fede?

Molto. Io sono musulmano, senza la fede non so come sarebbe andata. Chi ha fede sa che tutto ciò che accade è la volontà di Dio, e bisogna cercare di avvicinarsi a lui per avere una buona fine. Mi ha ascoltato.

Dove sei sbarcato?

In Sicilia, a Catania. Ma sono stato trasferito subito in Puglia, al Cara di Borgo Mezzanone, dove sono rimasto quasi due anni.

Qual è stata l’accoglienza, l’esperienza appena giunto in Italia?

Quando affronti un viaggio del genere, il semplice fatto di toccare terra, vedere un medico e sapere di essere vivo è una gran cosa. Ma il resto non è stato facile: eravamo 1200 persone stipate in un posto per 700 al massimo, dove anche trovare un letto era un problema. Il resto era tutto regolato da liti e violenza. Io avevo ancora i segni di quanto subito in Libia e un polso fuori uso, per cui la mia unica salvezza è stata la scuola. Andavo a lezione di italiano, al Cara, mattina e pomeriggio. Il mio obiettivo era imparare subito e bene la lingua per capire, per non dipendere dagli interpreti. La conoscenza della lingua è stata la mia salvezza: l’unica cosa che mi ha tenuto in vita in quella situazione era l’italiano.

Grazie al corso di italiano c’è stato incontro con la Bottega degli Apocrifi e la svolta...

Sì, prima di allora di teatro non sapevo nulla. Una insegnante, Irma Ciccone, mi ha messo in contatto con la compagnia che stava facendo delle call per uno spettacolo. Ho provato e ho iniziato a studiare, poi c’è stato questo primo spettacolo (Uccelli, ndr) e da allora ho iniziato un percorso di formazione teatrale. Grazie a Dio sta andando bene, sto imparando e con me c’è un altro ragazzo, Bakary, mentre un terzo è andato via.

Cosa è per te oggi il teatro?

E’ un modo per sfogarmi e per conoscermi. Io ho sempre scritto, sin da quando era piccolo, tutto ciò che mi sfiorava la mente. Con il teatro ho capito che si può andare oltre la scrittura. E’ un modo di esprimermi per dire chi sono. Sul palco racconto la mia storia, ma non parlo solo di me: parlo di tutto un popolo, così quando a Foggia la gente incontra un ragazzo che sta frugando nei cassonetti, chi ha ascoltato la mia storia possa pensare che è un altro Mamadou, che ha una storia dietro e non è caduto dal cielo. Racconto di me affinché 'l’altro' faccia meno paura alla gente: ancora oggi chi mi incontra per strada cambia direzione, ma io sono un ragazzo come tanti, con una vita e dei sogni come tutti.

Sei partito per avere un’opportunità. Avresti mai immaginato che questa possibilità sarebbe stata il teatro?

Mai. Nemmeno l’Italia era nei miei programmi. Chi parte dalla Costa d’Avorio ha come destinazione la Francia. Mio fratello, che è partito due mesi dopo di me, ora vive a Parigi con la famiglia. Sono in Italia per caso, perché il mio viaggio ha preso questa piega. Ma a me piacciono le sfide: la prima è stata imparare l’italiano, la seconda è stata studiare e sudare per il teatro, la terza è integrarmi in questa città. Oggi collaboro stabilmente con gli Apocrifi, ma sto lavorando anche in un bar, qui a Foggia, dove vivo. Mi piace imparare e mettermi alla sempre prova.

Pensi di aver avuto l’opportunità che cercavi?

Si, io sono orgoglioso di ciò che ho fatto. Tanti hanno mollato, sono andati via perché era troppo difficile, troppo complicato. Bisogna avere tanta forza e tanta pazienza. La mia vita in Italia non è stata facile, mi sono sempre detto: “Sii paziente, un giorno ce la farai”. A dicembre 2018, sono stato buttato fuori dal Cara, e quello poteva essere il momento giusto per mollare tutto. Invece ho trovato nella Bottega degli Apocrifi chi mi ha aiutato e sostenuto, e ho iniziato una nuova vita. Era giusto che io continuassi, anche per loro. Ho accettato dolore, sofferenza e difficoltà. Dopo 5 anni ho ottenuto un documento, valido due anni, che mi permette di lavorare regolarmente e sono orgoglioso del mio percorso. Vedremo come andrà a finire.

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