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Venerdì, 19 Aprile 2024
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Cent'anni fa nasceva Riccardo Carapellese, l'ala cerignolana che raccolse l'eredità di Valentino Mazzola

Nacque il 1° luglio del 1922 nel comune ofantino. Nel 1949 il presidente del Grande Torino lo scelse per ricostruire la squadra dopo la strage di Superga. Fu il protagonista nella sfortunata spedizione azzurra ai mondiali del '50

Nella narrativa calcistica il 1950 fu l'anno in cui si consumò uno dei più grandi drammi sportivi di sempre: quando Ghiggia freddò il povero Moacir Barbosa, non decise solo la quarta finale dei campionati del Mondo, ma distrusse il sogno di un popolo intero, quello brasiliano, di conquistare il primo alloro iridato, in casa, nello stadio più capiente del mondo, il Maracana.

Quell'evento, noto ai più come Maracanazo, è una ferita nel cuore dei brasiliani che periodicamente riprende a sanguinare, malgrado i cinque successi conseguiti nei decenni successivi grazie alle magie di Pelè, Garrincha, Romario e Ronaldo.

Questa premessa è doverosa per raccontare la storia di Riccardo Carapellese. Perché in quella edizione dei campionati del mondo, la prima dopo la fine del secondo conflitto mondiale, c'era anche l'Italia, bicampione uscente dopo i successi del '34 e del '38.

Gli azzurri sarebbero stati i favoriti annunciati se il 4 maggio di un anno prima l'aereo Fiat G.212 non si fosse schiantato sul colle di Superga, lì dove sorge l'eponima basilica.

A bordo dell'aereo c'erano 31 persone, nessuno sopravvisse. Tra questi, diciotto erano i componenti di quella che forse è stata la più grande squadra di sempre: il Grande Torino.

Quella squadra, per dieci undicesimi (il portiere Bagicalupo era l'unico che non aveva la titolarità assicurata, per via della concorrenza dello juventino Sentimenti IV) componeva anche la nazionale azzurra. Il suo leader tecnico e capitano era Valentino Mazzola. A riconoscere i corpi straziati dallo schianto, fu Vittorio Pozzo, ex commissario tecnico della Nazionale bi-campione del Mondo.

A bordo dell'aereo, per uno scherzo del destino, non c'era Ferruccio Novo, il presidente del Toro. Un anno dopo, Novo, che era anche vicepresidente della Figc, insieme al giornalista Aldo Bardelli, compose il duo tanto insolito quanto improvvisato, che guidò la spedizione azzurra ai mondiali in Brasile.

Il nuovo leader tecnico di quella squadra era diventato proprio Riccardo Carapellese. Nacque a Cerignola, esattamente un secolo fa, il 1° luglio del 1922. 'Carappa', il soprannome che lo accompagnò per tutta la carriera, era un giocatore dal grande talento, veloce, rapido e amante di quella giocata così poetica – il dribbling – che nell'ultratattico calcio moderno si vede sempre meno. Il legame di Carapellese con il Torino si era stretto sin dalle giovanili, dove crebbe calcisticamente prima di iniziare a girovagare per i campi del Nord. Spezia, Casale, Vigevano, Novara, Como, dal '42 al '46', prima dell'approdo nel primo vero grande club, il Milan. Con i rossoneri metterà a segno 52 gol in 106 partite distribuite in un triennio, conclusosi proprio nell'anno della tragedia di Superga.

Fu attorno alla sua figura che Ferruccio Novo decise di ricostruire la squadra granata, affidandogli la pesante eredità tecnica e umana (fascia di capitano e maglia numero dieci) di capitan Mazzola. Un trasferimento che si sarebbe potuto consumare già la stagione precedente, se il presidente del Milan non si fosse opposto: “Quella mancata cessione mi aveva salvato la vita”, raccontò in un'intervista.

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Dal Toro alla Nazionale, Carapellese assunse il ruolo di elemento cardine anche nella selezione azzurra nella quale figuravano – tra gli altri – Muccinelli, Amadei e Boniperti. Non proprio una squadretta.
Ma la dipartita del Grande Torino inficiò molto sull'andamento di quella spedizione: perché quasi tutti i giocatori si imposero affinché il viaggio verso il Brasile non si facesse in aereo. Fu la nave 'Siles' a traghettare la squadra in Sudamerica, in una estenuante traversata durata 18 giorni. Allenarsi sulla nave era pressoché impossibile. Per giunta, a metà del viaggio, tutti i palloni in dotazione erano già finiti nell'oceano. Inutile dire che la squadra arrivò a destinazione sfibrata nella mente e nel fisico. Gli azzurri furono sconfitti 2-3 all'esordio con la Svezia di Jeppson e Skoglund. Il pari degli scandinavi con il Paraguay rese inutile il successo dei nostri contro i sudamericani. Ma ciò non bastò a offuscare la stella di Carapellese. Fu protagonista in tutte le marcature azzurre, con due gol e altrettanti assist, cui si aggiunse una clamorosa traversa contro gli svedesi. Saranno in totale 10 le reti con la maglia azzurra, l'ultima delle quali nel 3-0 rifilato al Brasile in amichevole, nell'aprile del 1956.

Racconterà in seguito, che proprio le due prestazioni ai mondiali del '50 avessero attirato le attenzioni del Bangu, ricchissimo club di Rio de Janeiro, che arrivò ad offrirgli 12 milioni di lire all'anno (al Toro ne prendeva 700mila). Per la seconda volta, dovette rinunciare per il diniego del suo club. Al Torino Carapellese rimase fino al '52, prima di passare alla Juventus. Genoa, Catania e Ternana furono le ultime squadre, prima di appendere le scarpe al chiodo.

Intraprese anche la carriera da allenatore, facendosi apprezzare soprattutto a Terni, dove aveva concluso la carriera da calciatore. Con la formazione umbra vinse un campionato di serie D nel 1964. Esattamente dieci anni dopo, concluse la carriera da allenatore nella sua Puglia, a Martina.

Nei vent'anni successivi la vita non fu molto clemente con lui, dalla morte della figlia Daniela nel 1984 (uccisa da alcol e droga) ai problemi economici per i quali il Governo Andreotti, nel 1990 – cinque anni prima della sua morte –, gli concesse i vitalizi previsti dalla legge Bacchelli, quando l'Alzheimer era già entrato a far parte della sua vita, cancellandone progressivamente i ricordi delle sue gesta. Imprese che il calcio italiano e di Capitanata hanno dimenticato troppo presto. 

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