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Economia

Foggia, cameriere 'di professione e non per ripiego' punta il dito contro i ristoratori: "Non parlate per noi dipendenti!"

La lettera-invettiva di Peppino, che prende le distanze dalle proteste degli ultimi giorni dei ristoratori: "Noi dipendenti del settore della ristorazione di Foggia siamo una categoria bistrattata"

I ristoratori di Foggia e provincia, al pari dei colleghi di tutt’Italia, diventano protagonisti del malcontento causato dal cortocircuito del ‘semaforo’ del rischio Covid-19. Proteste, manifestazioni, interviste fiume: la scena è tutta la loro. Come dargli torto, in questo periodo.

Ma ci sono altre categorie, loro collegate, che sono rimaste nell’ombra. Sono camerieri, cuochi, pizzaioli, lavapiatti: “A noi chi pensa? Affamati da casse integrazioni irrisorie per via dei nostri contratti capestro e attese per mesi e mesi, chi darà voce ai nostri problemi?”, chiede Giuseppe, “cameriere di professione preparato ed appassionato”.

E’ lui l’autore di una dura lettera-invettiva, che trasforma il suo sfogo in quello di tanti dipendenti del settore della ristorazione”.

“Ho provato ad ignorare le centinaia di articoli locali e nazionali in cui le lamentele dei ristoratori si rincorrevano alle promesse del governo, che delegava tosto le regioni, che rimandava presto alle province, che rimpallava subito ai comuni, che restituivano tutto al mittente (che al mercato mio padre comprò). Ho cercato di rinchiudere nello stanzino più profondo del mio ‘Io’ lo sdegno per le frasi non-sense, per i termini che campeggiano ormai ovunque ( vedi "zonizzazione", "veicolare alla regione", "attendere i ristori"), per i numerosi intervistati di questo tempo di crisi, rappresentanti di diversi strati della nostra società, che non riescono a rifilare davanti alle telecamere un periodo di senso compiuto e dei tempi verbali corretti”, si legge nella lettera.

“Eppure, tira e tira, la corda si spezza; e dentro di me, cameriere di professione e non per ripiego, addetto alla sala preparato ed appassionato, qualcosa si è spezzata. Andiamo con ordine. Il 10 marzo, nel pieno della crisi da Covid-19 (all'epoca chiamato ancora Coronavirus), il governo decide di chiudere tutto, o quasi, e la mia categoria viene ovviamente colpita da questa ordinanza. Ora, è necessario spiegare una cosa: la mia categoria non è quella dei ristoratori che sono andati a protestare dinanzi alla prefettura; la mia categoria è quella dei dipendenti, quelli che, arriviamo al primo punto, hanno aspettato invano la cassa integrazione del mese di marzo, e aprile, e di metà mese di maggio, per vederla arrivare - la prima tranche - il 26 agosto. Ce l'avevano promessa per Pasqua, ed è arrivata dopo Ferragosto. Ma vabbè, noi dipendenti siamo pazienti. E proseguiamo”.

“Il 14 maggio il governo ci riapre: distanze di sicurezza, guanti, mascherine, gel disinfettante, sanificazione degli ambiente, menù digitali, tracciamento della clientela. Due giorni di rispetto delle regole ci avevano fatto pensare che sì, il virus ci aveva cambiato, che l'umanità migliora sempre se stessa, che non tutto il male viene per nuocere. Due giorni due. 48 magiche ore. Quarantotto. Poi abbiamo assistito a un valzer di scene tratte dai peggiori film da B-Movie all'italiana: ammucchiate senza ritegno, mascherine che esaltavano nasini alla Cirano sempre orgogliosamente al vento, baci e abbracci. Avevano aperto i cancelli, tanto bastava, delle raccomandazioni poco ce ne cale, facciamo festa, del doman non v'è certezza”.

“Analizziamo: i ristoranti sono pieni, i ristoratori hanno macinato in maniera egregia spremendo fino all'ultimo centesimo, e hanno ‘preso una boccata d'ossigeno’: i soldi dei due mesi chiusi non glieli ridà nessuno, ma hanno abbondantemente incassato. D'altra parte c'è la categoria dei Dipendenti, con la D maiuscola, la mia, quelli che dopo due mesi e mezzo senza un soldo bucato, con famiglie a carico, sono tornati e si sono sentiti dire che quest'anno, scordatevi le vacanze, le avete già fatte; scordatevi la quattordicesima, c'è crisi; non vi aspettate subito gli stipendi pieni, la ripresa è lenta. E noi Dipendenti, che da pazienti siamo diventati resilienti, noi che non abbiamo mai chiesto vacanze al nostro ritorno, ma che ci sembra ingiusto imporci questo diniego perché non abbiamo voluto noi restare a casa, Noi siamo tornati più disponibili che mai, il nostro essere volenterosi è diventato stacanovismo: ci chiedevano di voler bene all'azienda e di mandarla avanti offrendo uno sforzo in più, e Noi l'abbiamo fatto. Senza lamentarci, in silenzio, perché chi è piccolo si mantiene coi piedi saldi a terra, e capisce l'importanza di mantenere un lavoro, pur subendo a volte soprusi, pur svolgendo ruoli e mansioni che non competono e mai pagate, per poter mantenere dignitosamente e onestamente la famiglia”, continua.

“L'estate è passata. I ristoratori mai ammetteranno che si, hanno rimpinguato le loro casse. Il Gargano ha perso il mese di maggio è vero, ma da giugno a settembre la nuova Ibiza era Vieste e dintorni. I ristoranti della città palpitavano vita per tutta la bella stagione, una delle più floride degli ultimi anni (parola di lavoratore che tornava a casa a notte fonda). I Dipendenti invece hanno a mala pena saldato i debiti fatti per andare avanti quei due mesi bui. Ma procediamo ancora. Come si sa per ogni azione compiuta, c'è una conseguenza da affrontare, o in maniera più spicciola, tutti i nodi vengono al pettine. Arriviamo quasi ai giorni nostri. Il 26 ottobre, richiudono i ristoranti, con qualche limitazione in meno rispetto al lockdown di marzo, e dopo meno di una settimana, la nostra città diventa ‘zona arancione’: si ripiomba nell'incubo”.

“Riparte la cassa integrazione, arriverà prima dicono. Ma stavolta, a differenza della prima, le maggiori attenzioni sono dedicate a loro, i nostri amati ristoratori: sospendiamo la Tari, dicono, posticipiamo le tasse, dicono, introduciamo dei ristori sulla base del fatturato dell'anno precedente, dicono. Arriva il giorno della verità: il 3 dicembre, il re dei Dpcm Giuseppe Conte emana la bolla papale che tutti aspettavano: si riapre fino alle 18, ma...solo in zona gialla. Poi precisa, tra un po', giorno 5 al massimo, tutti saremo zona gialla. L'Italia dei Simpson”.

“Attenzione, quello che segue è qualcosa di difficilmente comprensibile per una mente con un quoziente intellettivo medio, se siete particolarmente suscettibili alla stupidità umana, desistete. Giorno 5 la Puglia diventa zona gialla; la notizia esce con una postilla del presidente Emiliano: la provincia di Foggia è a rischio ulteriori restrizioni per via dei numerosi casi di Covid-19. Su Foggiatoday campeggiavano due notizie, una di fila all'altra: ‘Puglia zona gialla, riaprono ristoranti e bar’; ‘Capitanata boom di contagi (più di 4000 quel giorno) e 72 decessi’; due ore dopo, due, Emiliano chiaramente lascia intendere che la provincia di Foggia o parte di essa, ritorneranno seduta stante in zona arancione con tutto ciò che ne conseguiva. Ora, in questo clima di profonda incertezza socio-economica, cosa fanno le nostre cime, i nostri adorati ristoratori? Parola loro, spendono migliaia di euro per ri-approvigionarsi in vista della riapertura. Complimenti, uno spirito imprenditoriale da occhio di falco”, continua con sarcasmo.

“E quando, come promesso, come già detto nell'immediatezza dei fatti, vengono costretti a richiudere, cosa fanno? Vanno a protestare. Che è cosa buona e giusta, sacrosanta, per carità. Ma poi succede qualcosa di catastrofico per me, quella goccia che ha scavato così a fondo nella mia dignità umana da lacelarla in più parti, e da non potermi più fare tacere. Ai microfoni parla un noto chef della città. Chef e Patron. E avanza le richieste della sua categoria. E dice di essere lì dinanzi alla prefettura a rappresentare anche i dipendenti del settore della ristorazione. E conclude chiedendo non briciole, ma ristori concreti, perché, dice lui, ai Dipendenti il governo ha ben pensato con la cassa integrazione, a loro, poveri ristoratori, solo chiacchiere”. E qui il vaso trabocca.

“Bene, ora parlo io”, batte i pugni Giuseppe. “Noi dipendenti del settore della ristorazione della città di Foggia siamo una categoria bistrattata, con contratti turistici a 16 o 24 ore la settimana (ovviamente lavoriamo almeno il doppio alla settimana, almeno). Quando i contratti avete intenzione di farceli, resta beninteso. Perché fin quando avete potuto siete andati avanti a voucher, o peggio ancora, in nero. E quindi questo cosa comporta, cari ristoratori? Che la cassa integrazione è l'80% della busta paga. E la nostra busta paga è miseria, è un 50% scarso del nostro reale salario. Il che comporta che la cassa integrazione riconosciutaci dal governo è poco più di un quarto di quello che ci spetta. Comporta altro? Certo. Comporta ancora che noi onesti e seri lavoratori, che non conosciamo giorni di feste comandate o rossi sul calendario, che abbiamo lavorato a pasqua, ferragosto, natale e capodanno, che abbiamo sacrificato le nostre famiglie, abbiamo una miseria di contributi versati, e la nostra pensione, se mai ci sarà, sarà irrisoria”.

Ancora, i ristoratori chiedono “la riapertura dei locali fino all'Epifania. Ma questo a che scopo? Per rimpinguare le vostre pance e saziare la vostra avidità: avrete venti giorni di gloria in cui cercherete di incassare quanto più possibile, e poi piangerete di nuovo, ma con le tasche piene, quando sarete costretti a chiudere nuovamente per l'aggravarsi della situazione (vedasi questa estate). Noi dipendenti invece in venti giorni di lavoro, guadagniamo 20 giorni di lavoro, che significa: pagheremo gli affitti di casa del mese di novembre e dicembre, le bollette arretrate, restituiremo qualche soldo chiesto in prestito per acquistare i pannolini ai nostri figli, a cui mai faremmo mancare nulla. E passati quei venti, magnifici giorni, in cui farete finta di non averci lasciato morire di fame per due mesi e ci chiederete di nuovo di portarvi la luna nei vostri ristoranti, torneremo nella nostra nebbia, dimenticati da voi”.

“Avete gridato praticamente alla povertà per un mese, poi appena si è aperto uno spiraglio, avete prontamente speso migliaia di euro in approvvigionamenti. Avete deciso di investire nella merce, e non nel capitale umano che avete tra le mani. Quando si tornerà, chiedete alle vostre preziose bottiglie, alle vostre pregiate pietanze, di sanificare gli ambienti di lavoro: non siamo addetti alle pulizie, siamo camerieri, pizzaioli, cuochi, lavapiatti. Chiedete alle banconote tanto avidamente accantonate di togliere la polvere dai vostri magazzini, di sgrassare il lerciume dei vostri dehor, e già che ci siete, fate dare una lucidatina anche alla vostra anima. Arriviamo alle conclusioni: che non si senta offeso il ristoratore con la coscienza pulita, non hai nulla da temere, tu imprenditore padre di famiglia che con fatica arrivi a fine mese e badi al tuo personale con affetto. Lungi da me fare di tutta l'erba un fascio, sarebbe come banalizzare la situazione, e non è da me”, precisa.

“Si senta scosso nel profondo colui che si ritrova in queste parole, e che probabilmente (o sicuramente) deciderà di accusare il sottoscritto di non capire cosa significhi portare avanti una azienda. La mia azienda, cari ristoratori, è la mia famiglia, quella che mi aspetta a casa ogni sera con un sorriso, che sopporta i miei sbalzi d'umore, i miei orari indecenti. La mia famiglia, quella che scelgo di amministrare con coscienza e non con avidità, quella a cui non rinnego un aiuto, per poter poi  acquistare l'ultimo Suv ultracostoso da ostentare, o il giubbetto da 700€ da mettere una volta al mese. Il denaro fa l'uomo ricco, l'onestà morale lo fa signore. Smettete di rappresentare la mia categoria, di ‘farlo per i dipendenti’. Io con voi non ho niente da spartire. Firmato Peppino, cameriere che non smette di regalare sorrisi nonostante le difficoltà della vita”, conclude.

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