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Dopo la tempesta la voglia di riscatto di cinque donne: al telaio con "la lingua del fare" per tessere un futuro migliore

Cinque giovani donne hanno partecipato al ‘Laboratorio di filato’ organizzato nell’ambito del progetto Siproimi del Comune di Candela, gestito dalla cooperativa sociale Medtraining. Provengono da Nigeria e Costa d'Avorio e l'obiettivo finale è creare un marchio per la vendita delle loro creazioni

Per mesi hanno intrecciato i colori e il calore del paese di origine alla speranza di una nuova vita. Hanno ‘imbrigliato’ tra gli orditi del telaio le esperienze negative vissute fino a ieri, lasciando spazio ad un trama nuova, tutta da creare.

Sono le cinque giovani donne che hanno partecipato al ‘Laboratorio di filato’ organizzato nell’ambito del progetto Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) del Comune di Candela, gestito dalla cooperativa sociale Medtraining.

Le corsiste hanno dai 23 ai 32 anni, ma quelle esperienze vissute nel paese di provenienza o durante il passaggio obbligato in Libia, non basterebbe una vita per dimenticarle. Molte hanno lasciato pezzi di cuore in Africa: genitori, ma anche figli. Altre hanno portato in Italia anche le loro bambine. Provengono da Nigeria e Costa D’Avorio e sono ospitate presso la struttura 'Torre Bianca', a Candela.

Il filato è una metafora, è un modo per comunicare anche se non si parla la stessa lingua”, spiega a a FoggiaToday l'operatore Paolo Cerrone. “E’ un punto di incontro tra le due culture: anche noi abbiamo sempre avuto una importante tradizione tessile, anche se oggi è stata un po’ messa in disparte”.

Causa Covid, le lezioni si sono svolte da remoto ma sono state ugualmente fruttuose: “Le corsiste si sono dimostrate avide di conoscenza, vogliose di imparare e mettere nelle loro creazioni il loro essere, le loro origini”, spiega la docente Pina Suriano. “Durante le videolezioni ho preteso che si parlasse solo in italiano, perché l’integrazione non può non passare dalla parola. Solo nei primi incontri ci siamo avvalsi di traduttori, e anche in questo le ragazze sono state bravissime”.

Lezione dopo lezione, mani sempre più esperte hanno dato forma a creazioni artigianali quali borse, tappeti, coperte e cappelli (solo per citarne alcuni) dalle cromie inedite e dense di significato. “Dopo ogni lezioni, le ragazze continuano a lavorare alacremente, per affinare la tecnica e la manualità. E’ una forma di riscatto”, continua. Perché lavorare al telaio diventa “la metafora per chi cerca di riannodare i fili della propria vita, di fare ordine nei pensieri. Anche se in silenzio, si può parlare attraverso quella trama che si snoda tra gli orditi: e come la trama vanno avanti i pensieri, fino a trovare ognuno il proprio posto”.

A maggior ragione per chi è stato costretto a lasciare il proprio Paese a causa di violenze, guerre, miserie, persecuzioni. Alle donne che hanno preso parte al progetto non è stata solo insegnata una tecnica di lavoro. E’ stata consegnata loro una possibilità. A partire dall’abilità di costruire un telaio con materiali di recupero, a costo zero, utilizzando una cassetta dismessa della frutta o una scatola di cartone. Oppure ad utilizzare uno stecco di gelato come ago. Perché volere è potere, e il riscatto non può passare da alcuna forma di dipendenza. “Il lavoro manuale ci ha permesso di parlare tutti la stessa lingua, quella del fare”, ha spiegato ancora Cerrone. Tra pochi giorni partirà il terzo step del progetto, ma l’obiettivo finale - al momento ancora una aspirazione -  è quello di creare un vero e proprio brand e mettere sul mercato le varie creazioni di ‘artigianato integrato’.

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