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Cronaca

L'otto settembre del 1943, a Foggia: il ricordo dei reduci di guerra

Una pagina della nostra storia recente, raccontata - attraverso documenti e testimonianze - da Salvatore Aiezza docente storia del dopoguerra Università crocese

Si è parlato, si parla e si parlerà dell’8 settembre 1943, attribuendo a questo giorno una data storica per le sorti della guerra e della nostra. Ma cosa fu e cosa rappresentò e quali conseguenze ebbe l’8 settembre su centinaia di migliaia di soldati italiani sparsi per i vari fronti di guerra in tutta l’Europa? Quando la confusione, provocata soprattutto dall'utilizzo di una forma che non faceva comprendere il reale senso delle clausole della resa testé firmata generò ulteriore confusione presso tutte le forze armate italiane, e che, lasciate senza precisi ordini, si sbandarono?

Questa è un’altra storia: è la storia di oltre mezzo milione di soldati italiani catturati dall'esercito germanico, e destinati, purtroppo, ai diversi campi di prigionia, oppure ai lager, o di quelli che nelle settimane immediatamente successive vennero passati per le armi senza alcun processo. Ma è anche la storia di oltre la metà dei soldati in servizio che abbandonarono le armi e tornarono alle loro case. Senza distinzione di grado: dai soldati semplici agli Ufficiali. Ho avuto occasione, per i motivi di cui tra breve dirò, di parlare con tanti di loro ed è per questo che, nella ricorrenza dell’8 settembre, ho pensato di trascriverli affinché tutti coloro che non hanno vissuto in quel periodo sappiano a cosa sono andati incontro i loro nonni e i loro avi.

Infiniti furono i disagi e le peripezie cui dovettero sottoporsi i nostri  soldati che cercavano di tornare alle loro case, privi di tutto, sfuggendo alla fame, alla sete, alle intemperie e ai tedeschi che, ove li avessero  catturati, li avrebbero fucilati o mandati nei campi di concentramento. Peraltro per tante di queste persone, anche dopo molti anni dalla fine della guerra, quelle peripezie continuarono, questa volta per colpa delle angherie burocratiche che impedivano  loro di ottenere una pensione, un beneficio  quale ex combattente o di altro genere.  Infatti i soldati che “sbandarono” dopo l’8 settembre e lasciarono le armi, autonomamente, senza alcuna autorizzazione che, ovviamente, sarebbe stata impossibile avere e senza alcun congedo, vennero poi denunciati, sottoposti a procedimento penale e  condannati dai vari tribunali militari per diserzione! Senza che nessuno dei “disertori..”  avesse mai saputo nulla di tali pesanti provvedimenti, se non, appunto,  quando si richiedeva una qualche concessione ai pubblici uffici.

Per molti quella condanna comportò danni materiali e morali non potendo aspirare neanche ad un posto di lavoro pubblico. Ho avuto modo di occuparmi personalmente di  questi casi quando, giovane praticante avvocato, agli inizi degli anni 80, tanti anziani, ex combattenti, si recavano presso lo studio che avevo nella casa della nonna materna in un piccolo Paese del nostro subappennino. Si trattava, in quei casi, di svolgere semplici pratiche per far ottenere a questi anziani la riabilitazione militare e, quindi, la cancellazione di quella condanna  della quale mai avevano saputo nulla sino a che una lettera del tale ufficio non  comunicava loro l’impossibilità di concedergli il tale beneficio per la sussistenza del reato di diserzione. Immaginate il viso di questi anziani, per la maggior parte rugati da lunghe giornate trascorse a lavorare in campagna, quando  leggevano una cosa simile e, peggio, quando, vedevano il  certificato delle condanne penali  che  dimostrava, inesorabilmente,  la condanna  pronunciata e creava in loro uno stato di ansia e prostrazione davvero inspiegabile. A volte mi pregavano di non far sapere nulla ai famigliari e ai figli per quanto giudicavano infamante quella condanna. Qualcuno piangeva e si sfogava, ricordando i sacrifici fatti per la Patria ( c’era anche chi  aveva delle onorificenze per via di ferite riportate in battaglia).

Le condanne per diserzione rinvenivano, per la maggior parte dei casi, per  non aver risposto ai bandi di chiamata del 29 settembre del 44 o perché non si ripresentarono (dove?)  al Corpo di appartenenza allo scadere della licenza, dopo l’8 settembre. I Distretti Militari, all’epoca, denunciavano alle Procure militari, anche chiunque, appartenente alle classi dal 1914 al 1924 richiedeva, per i più svariati motivi il foglio matricolare facendo così scoprire che non era stato mai, ufficialmente congedato, ed essere stato perciò disertore, in tempo di guerra. Immaginate lo sconcerto che colpiva persone: padri di famiglia, che  in quegli anni erano ancora in piena età lavorativa. La questione, come era ovvio che fosse, finì sui banchi del Parlamento e il 27. 9. 57 venne anche presentata, dall’Onorevole Viola, una proposta di legge per la cancellazione di questo reato, per gli ex combattenti. Inutile dire che la riabilitazione,  dopo aver prodotto  una valanga di documenti, veniva concessa  e il vincolo alla concessione o ammissione al tal beneficio, rimosso. Ma pensate a quanti, per es, dovevano ottenere una pensione da parte di un Paese straniero dove, dopo la guerra  in tanti, dal nostro subappennino, emigrarono e lavorarono per decenni,  si  vedevano privare di quel beneficio  per effetto di una condanna tanto assurda quanto inutile. Era davvero una di quelle cose che non si possono spiegare se non si è vista la faccia di questi nostri anziani.

E’ stato proprio in occasione degli incontri che avevo con questi “vecchietti” che ho appreso  delle loro peripezie, iniziate dopo aver saputo dell’armistizio. Quasi sempre tra l’altro, i soldati lasciavano il fronte solo dopo essersi accorti che erano abbandonati al loro destino dai superiori diretti e dagli ufficiali. Sino a quel momento, infatti, molti non credevano o non avevano ben compreso quello che l’8 settembre era successo. C’era chi aveva paura di scappare, chi sperava di ricevere un qualche ordine. Ad ogni modo, la prima cosa da fare era quella di rendersi pienamente conto di dove fossero, di quanto fossero lontani dai tedeschi, sino a pochi giorni prima amici, ora improvvisamente nemici  e, cosa più importante, quanto fossero lontani  da casa. Accertata la possibilità di  abbandonare senza problemi il fronte, nasceva quella di togliersi al più presto la divisa. C’era, allora, chi sopportando anche i primi freddi, trovandosi nei Paesi più a nord dell’Europa, restava con  la biancheria intima (i  famosi mutandoni) di cui erano dotati, sino a quando  raggiungevano un villaggio, una casa di campagna dove venivano rifocillati e forniti di un qualche indumento. Purtroppo non mancarono circostanze nelle quali la paura dei tedeschi era così forte che ai nostri soldati che scappavano, venivano chiuse e sbarrate le porte  per paura di ritorsioni.

Iniziava poi il lungo cammino verso il ritorno a casa; seguendo sentieri e strade nascoste o poco battute dal nemico, con le scarpe oramai ridotte a poco più di una soletta, mangiando quel che capitava e dimenticando cosa significasse lavarsi e farsi la barba. Qualcuno prendeva anche brutte malattie a causa di infezioni provocate da acqua o cibo scadente e, talvolta, ci rimetteva la vita. Questi viaggi, se tutto andava bene, duravano settimane e, per chi tornava dal nord Europa i primi freddi diventavano già insopportabili. A casa, invece, in questi piccoli paeselli arroccati sui nostri colli,  tra i famigliari, cresceva l’angoscia  e l’attesa, avendo saputo di ciò che stava accadendo al fronte, specie tra quanti vedevano tornare i primi reduci e aspettavano con ansia il ritorno anche di un loro parente. E  man mano che i reduci tornavano venivano quasi presi d’assalto da coloro che chiedevano notizie di altri soldati e sul loro destino. C’era anche chi, purtroppo, tornava a casa ma, una casa non la trovava più perché i parenti erano stati costretti a vendere tutto per poter tirare avanti. Ma, qualche “storiella!” meno brutta non mancava anche se, ovviamente si doveva tenere segreta: come quella di un anziano che, (parlo ovviamente degli anni 80 ai quali mi riferisco), quando lo conobbi era ancora un “giovanottone” e mi disse che durante il ritorno in Patria si era fermato  presso una cascina, forse in Umbria, non si ricordava bene il luogo, dove era stato assistito dai locali occupanti e la permanenza si prolungò per diversi giorni a causa di una relazione che aveva intrapreso con una ragazza del posto.  Il passaggio da quel luogo di un gruppo di soldati – reduci, suoi “paesani”, lo aveva poi convinto a riunirsi a loro per far rientro a casa.

Un altro reduce dal fronte geco, scampato per poco alla strage della nostra gloriosa brigata Acqui, compiuta tra il 21 e il 24 settembre del 43 dai tedeschi, mi raccontò di aver portato con se centinaia, non decine, di lettere di commilitoni, destinate alle famiglie di origine, qualora non avessero fatto ritorno a casa. Era, questo dello scambio delle lettere, un rito frequente tra soldati al fronte i quali se le scambiavano tra loro, con la speranza che almeno qualcuno di loro, salvandosi e facendo ritorno al proprio Paese potesse darle ai propri cari. Consegna che diventava un momento di tristezza e angoscia infinita da parte di chi, quasi con un senso di colpevolezza, portava  una lettera o un diario di chi non sarebbe mai più tornato, alla famiglia. Potrei continuare nel racconto ma credo che questi di cui ho parlato siano sufficienti per comprendere  come l’8 settembre, se da una parte ci ha dato la pace, dall’altra ha fatto scrivere un’altra storia, della quale, forse, ancora oggi, troppo poco sanno i nostri giovani.

Salvatore Aiezza, docente storia del dopoguerra Università crocese e tesoriere del comitato per la realizzazione del monumento alle vittime dei bombardamenti dell’estate 43 a Foggia

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