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Giovedì, 25 Aprile 2024
Cronaca

Shoah, Opera Nomadi di Foggia: “Nei campi ieri morte fisica, oggi morte sociale”

Il pensiero del presidente Antonio Vannella: “La parola ‘campo’ richiama condizioni precarie e di sopravvivenza, collocazione ai margini, allontanamento, segregazione e pratiche di controllo”

Nota- Questo comunicato è stato pubblicato integralmente come contributo esterno. Questo contenuto non è pertanto un articolo prodotto dalla redazione di FoggiaToday

Scorrono gli anni, ma il 27 gennaio è una data in cui il tempo sembra fermarsi. Ciò che è stato commesso non ha eguali. Come presidente dell’Opera Nomadi sede provinciale di Foggia, fermo le immagini e penso, invitando tutti alla riflessione sul Parrajmos, che è più di una distruzione.

Credo non si possa tradurre, devastazione, forse azzeramento. Parrajmos è ignoranza, odio, pregiudizio, covati per secoli, poi in pochi anni un milione di zingari annientati, sterminati, come i fratelli ebrei ed omosessuali, in quegli obbrobriosi campi di sterminio.

Oggi dobbiamo ricordare, per non dimenticare ciò che è avvenuto, affinché non ci sia mai più un Parrajmos, né una nuova shoah, per noi e per nessun altro popolo sulla terra. Ma è anche un’ occasione per denunciare ciò che oggi ancora non si fa, quello che la politica non fa  e non vuole fare e non vuole far fare.

Si continua negli anni ad alimentare sentimenti di forte preoccupazione come ad esempio i pregiudizi, o termini agghiaccianti come quello di ‘campo’ per indicare la collocazione dei Rom. Dove ieri nei campi l’uomo trovava la morte fisica, oggi trova la morte sociale. La parola richiama condizioni precarie e di sopravvivenza, collocazione ai margini, allontanamento, segregazione e pratiche di controllo.                                                                             

Non dobbiamo solo ricordare, come se fosse una semplice commemorazione, perché oggi ricordare significa che siamo chiamati a cambiare le cose, in memoria di chi ieri è morto, ma anche per chi oggi rischia di subire una morte sociale. Perché il seme non muoia, ma si trasformi in vita.

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