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C'era una volta il Foggia

C'era una volta il Foggia

A cura di Alessandro Tosques

Franco Mancini, il numero uno di Zemanlandia che volava tra i pali con il reggae nel sangue

L'ex portiere del Foggia morì il 30 marzo del 2012 a Pescara, dove con Zeman condivise gran parte della stagione che riportò il Pescara in serie A dopo vent'anni

Uno degli ultimi piacevoli ricordi che ho di lui risale a diversi anni fa. Era il 2008, ero un quasi laureato, con un esame di Letteratura Latina da sostenere, oltre a una integrazione e un esame a scelta (Chi ha frequentato la facoltà di Lettere in quegli anni sa di cosa parlo). Con gli amici ero solito frequentare il Big Bamboo, un pub che si trovava in piazza Mercato. Luci soffuse, ambientazione etnica, e musica reggae a palla.

C’erano degli strumenti dove di tanto in tanto un po’ di gente si dilettava a suonare. Tra gli improvvisati musicanti c’era un tizio con 240 presenze in Serie A nel curriculum, la metà delle quali con la maglia del Foggia. Era un habitué, essendo amico del titolare. Suonava la batteria, pezzi reggae naturalmente. La sua passione che coltivava collateralmente alla professione di portiere.

I riccioloni, che insieme alle scorribande fuori dall’area gli erano valsi il soprannome di “Manchiguita”, non li aveva più da anni. Il sorriso e la spensieratezza erano quelle di sempre. Come eterno era il suo legame con il reggae. Un sodalizio bizzarro, pensavo tra un sorso di birra e un morso al panino. Ma che non poteva sorprendere chi conosceva il personaggio. Perché Franco Mancini era unico. Prima di tutto, era stato un grande portiere, bravo tra i pali, reattivo, elastico come pochi. Capace di ricacciare indietro palloni che con un portiere normale sarebbero morti in fondo al sacco. Era un gatto il Mancio, un portiere affidabilissimo nonostante la sua statura (sfiorava appena il metro e ottanta) non fosse la più appropriata per difendere i pali di una porta.

Pavone lo scoprì a Matera, Zeman, dopo il suo ritorno a Foggia, capì presto di aver trovato l’elemento ideale per il suo gioco. Perché il Mancio ci sapeva fare anche con la palla al piede. Dote imprescindibile con la difesa alta e la zona estrema proposta dal boemo. “Orso”, come lo soprannominò Fabio Fratena, per il carattere schivo che aveva appena arrivato in Capitanata a soli 19 anni, era perfetto per supplire il vecchio libero, che il 4-3-3 di Sdengo non poteva mica contemplare. Era un grande il Mancio, per quel modo spregiudicato di interpretare un ruolo così delicato. Le sue uscite spettacolari, a volte avventate, spesso efficaci spesso infiammavano lo Zaccheria, lo stadio che più di tutti lo ha amato. Logico il parallelismo con il funambolo Higuita, uno dei suoi idoli, nonché personaggio tra i più pittoreschi che si ricordino del Mondiale di casa nostra.

Amato dappertutto, nonostante abbia fatto tappa in piazze tra loro distanti, a volte nemiche. Privilegio concesso a pochi, ai grandi uomini. E Franco lo era. Foggia non lo ha mai dimenticato, né smesso di amare, neppure quando difese le porte “nemiche” di Bari, Napoli e Salernitana. Non vennero mai meno stima e affetto, sentimenti forti e sinceri, come quello che lo legarono profondamente al suo mentore Zeman. L’Orso e il Muto. Sdengo lo volle con lui nella sua terza esperienza foggiana prima, a Pescara poi.

Quando Franco se ne andò Zeman non perse un semplice allievo. “Non riesco a non pensare a Franco”, disse con voce che faticosamente tratteneva un pianto di disperazione. Il Pescara aveva appena battuto la Sampdoria a ‘Marassi’, conquistando matematicamente il pass per la massima serie. Il ricordo commosso di un allievo, ma soprattutto grande amico, che non c’era più, soppiantò la gioia legittima per un trionfo inaspettato. Solo il Mancio avrebbe potuto scardinare l’imperturbabilità emozionale del Boemo. “Prodezza” alla quale, però, tutti noi avremmo volentieri rinunciato.

Perché Franco Mancini, grande portiere, grande uomo, ci manca… tanto.

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